Senza giustizia: così si muore in Congo

di Valeria Iotti

Micheline Mwendike, fondatrice del movimento congolese Lucha, racconta cosa succede oggi nel suo Paese, dove lo stupro è un’arma e i bambini diventano soldati.

Il 22 febbraio 2021 l’Italia ha (ri)scoperto il Congo. Quel giorno muore Luca Attanasio, giovane ambasciatore di stanza a Kinshasa, durante un viaggio a Goma, la città principale del Kivu, la regione più interna del Congo, incastonata al confine con il Ruanda e sulle rive dell’omonimo lago. Micheline Mwendike, che a Goma è nata nel 1985, ci dice che Attanasio è morto come un congolese: non si sa perché, non si sa chi è stato, non lo si saprà forse mai. In questa nebbia che copre una guerra quotidiana e sotto traccia, l’unica certezza è che questo Paese enorme, ricolmo di ricchezza naturali e minerarie, di tradizioni e di forza ha nel caos il suo minimo comune denominatore, che protegge con la sua apparente irrazionalità traffici, interessi, violenze e sopraffazioni. E donne e ragazzi pagano, come sempre, il prezzo più alto.

La grande guerra in Congo iniziata nel 1996 in teoria è finita, ma nei fatti? 

In Congo operano trecento milizie e movimenti armati, soprattutto nella parte est del Paese, nel parco del Virunga, nella regione dei laghi e delle montagne dove si concentrano i giacimenti minerari. Ci sono I gruppi armati composti dai militari arrivati in Congo per sfuggire al genocidio in Ruanda, ci sono gruppi di origine ugandese, altri affiliati all’Isis, altre milizie di cui non si sa nulla. Quello che fanno tutti è saccheggiare e distruggere villaggi, spesso con armi bianche, con violenze indescrivibili, per controllare il territorio e tutti I traffici di materie prime e minerali. Parliamo di migliaia di morti, nel silenzio assordante.

Eppure dal 2000 in Congo è stanziato uno dei più grandi contingenti Onu mai dispiegati, il Monusco, con oltre 5500 uomini. Cosa sta facendo?

Sono venuti a consolidare la pace, ma la pace non c’è. Per statuto non possono prendere iniziative e nemmeno prendere posizione, quindi di fatto la loro presenza non cambia quasi nulla. Per cambiare le cose bisogna pestare  piedi, turbare equilibri. 

È per questo che hai fondato ‘Lucha, movimento per il cambiamento’?

Se per vent’anni e più niente cambia in meglio, vuol dire che quello che si fa non funziona e bisogna ripensare il sistema. Goma, la mia città, nel 2012 contava oltre trecento sedi di organizzazioni umanitarie, arrivate per portare aiuto a metà degli anni ’90 quando in città, che aveva 150.000 abitanti, si era riversato un milione e mezzo di persone che scappavano dal genocidio nel vicino Ruanda. Oltre il 50% del lavoro in città era ed è garantito da loro, anche io lavoravo per loro nel 2012. Bisogna fare un passo avanti. È facile convincere le persone ad aspettare un aiuto, mantenendosi neutrali, ma così lo status quo si mantiene sempre.

Così è nata Lucha, era il 2012, eravamo in cinque giovani. La prima azione è stata il 1° maggio, sul diritto al lavoro. Noi siamo per l’azione non violenta perché siamo cresciuti nella violenza e sappiamo che non porta da nessuna parte, non genera il cambiamento, solo altra violenza. Nell’azione non violenta il corpo diventa un’arma. Rappresentavamo una generazione nuova che voleva un Paese che le somigliasse. Il 30 giugno siamo stati arrestati, soprattutto per scoraggiare l’adesione di altri giovani, perché questo fa paura alla politica. Sono arrivati I media a dire che lavoravamo con gruppi armati, che eravamo manipolati da chissà chi, hanno cercato di screditarci ma in realtà ci hanno fatto pubblicità e così il movimento ha resistito ed è cresciuto.

Oggi, nel 2021, siamo operativi in ventire città in Congo e abbiamo contribuito a tanti piccoli cambiamenti

Cosa si può fare per aiutarvi in questo cambiamento?

Questa è una domanda difficile. C’è una responsabilità principale e una secondaria. La principale è nostra, dei cittadini congolesi, siamo noi che dobbiamo agire perché il Congo è nostro. Allo stesso tempo siamo legati all’Europa, a tutti gli altri Paesi perché, ad esempio, le armi che si usano in Congo non si producono in Congo. I minerali che sono venduti dai miliziani sono sempre più tracciabili. Il punto non è suscitare compassione per ricevere denaro, ma condizionare l’aiuto estero, indispensabile, a interventi concreti da parte dello Stato, altrimenti i politici sono ben felici di essere deresponsabilizzati. 

Che situazione vivono le donne e i bambini oggi in Congo?

Le donne sono letteralmente delle eroine, sono loro che portano avanti l’economia e pagano il prezzo più alto del sistema. L’economia che funziona è quella informale. In una situazione di guerra infinita, dove gli uomini non riescono a trovare un lavoro, la sopravvivenza è garantita dal lavoro delle donne, che però viene ignorato. L’agricoltura è sulle spalle delle donne, che rischiano tantissimo mentre vanno a raggiungere I campi. Rischiano di essere stuprate, perché in Congo lo stupro è un’arma di guerra. È una cosa disumana, perché va oltre l’omicidio, è la volontà di umiliare e sopprimere. Anche per i bambini è difficile, perché nel caos è difficile immaginare il futuro. La storia di mio cugino è un buon esempio. Si è arruolato a quattordici anni, ha combattuto nella grande guerra del 1996, ne abbiamo perso le tracce e lo abbiamo creduto morto finché non l’ho ritrovato per caso durante un viaggio di lavoro a duemila chilometri da Goma. Rientrato, si è fatto nuovamente arruolare da una milizia da cui poi è uscito ma non riesce a trovare altro e si nasconde fra alcool e droga. Avrebbe potuto studiare come me, ma quel giorno si è fatto reclutare da bambino e la sua vita ha preso un binario irreversibile e come lui milioni di bambini, prede facili per le milizie.

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