Micro-accoglienza e reinserimento contro il caporalato

di Francesca Campanini

Ce ne parlano gli operatori di Gruppo R, cooperativa che partecipa al progetto regionale N.A.V.I.G.A.Re contro la tratta e il grave sfruttamento

Il caporalato è un fenomeno che ci riguarda più da vicino di quanto spesso pensiamo, perché è radicato nel territorio, anche in Veneto. Emersione, accoglienza, integrazione e fuoriuscita attraverso il raggiungimento di una condizione di autonomia: questi sono i passaggi fondamentali per aiutare le vittime a non restare intrappolate in un sistema ingiusto e in una vita di sofferenza, e a trovare invece la via per uscirne.

Di fronte all’esigenza di una reazione contro queste reti di grave sfruttamento è un progetto coordinato a livello regionale a rispondere: il progetto N.A.V.I.G.A.Re, di questo fa parte anche la cooperativa sociale Gruppo R che, come spiega l’operatore Riccardo Andreoli:

Riccardo Andreoli
Riccardo Andreoli

È nata a Padova vent’anni fa e gestisce servizi per persone in difficoltà o in stato di emarginazione. Abbiamo lavorato con i richiedenti asilo, con le vittime di sfruttamento, tratta e con persone senza dimora. Nello specifico con il progetto N.A.V.I.G.A.Re abbiamo un’accoglienza per persone vittime di sfruttamento lavorativo.

La cooperativa gestisce una casa dove uomini vittime di sfruttamento lavorativo vengono accolti e sostenuti, in modo da poter lasciare il lavoro insostenibile e dalle condizioni illegali a cui erano sottoposti e iniziare un percorso di integrazione sociale e di inserimento nel mercato del lavoro legale. È sempre Andreoli che ci racconta chi sono gli uomini che beneficiano del progetto, il loro profilo è difficile da tracciare nello specifico, perché moltissime sono le variabili dei contesti di provenienza, sia in termini geografici che in base alle esperienze vissute:

Di solito sono persone straniere, noi abbiamo cinque persone ora nella nostra casa di accoglienza, noi in questo momento abbiamo persone d’età giovanissima, vent’anni, e persone di cinquant’anni. Le provenienze sono svariate: abbiamo persone dall’Africa, dal Pakistan… Vengono da situazioni diversissime in realtà, perché anche lo sfruttamento lavorativo ha molte sfaccettature. Abbiamo persone che lavoravano in aziende e le condizioni di sfruttamento erano che comunque avevano dei contratti pagati molto poco e con pochissime ore in regola, mentre ne facevano molte di più. Poi abbiamo persone invece che hanno sempre lavorato totalmente in nero.

Queste persone si trovano a vivere insieme e la convivenza non è facile, racconta Riccardo Andreoli:

Quando una persona arriva da noi c’è il momento dell’inserimento, in cui le vengono spiegate una serie di cose riguardo all’accoglienza, c’è un vero e proprio regolamento. La convivenza è molto variabile, nel senso che convivere non è facile in generale, dal mio punto di vista, e soprattutto convivere con gente che non ti sei scelto e non conosci, per questo noi sulla convivenza e sulle relazioni cerchiamo di lavorare parecchio. Per esempio, essendo delle case protette, una delle regole fondamentali è che non possono ospitare persone, perché questo potrebbe mettere a rischio le altre. Poi la convivenza dipende molto dalle singole persone e dal passato che hanno avuto. In questo momento specifico la nostra accoglienza funziona veramente molto bene, stanno bene tra loro e non ci sono grossi problemi. In passato invece abbiamo avuto situazioni delicate, soprattutto nel periodo del lockdown. Erano cinque persone costrette a stare in casa, che per carità è una casa accogliente, però le relazioni si potevano complicare facilmente

I posti nella casa sono cinque e il tempo programmato per la durata del progetto, per ogni beneficiario, è di circa undici mesi. Nell’arco di questo tempo, che rimane pur sempre variabile, vengono offerti svariati servizi, come spiega Giusy Simone, educatrice del Gruppo R:

Trattandosi di un fenomeno molto complesso la risposta che il progetto cerca di dare va a 360°, quindi se da una parte c’è tutto un percorso di accompagnamento in un contesto di accoglienza, dall’altra ci sono anche delle azioni che vengono fatte prima, nella fase di emersione. Questa fase dell’emersione può avere origini differenti, nel senso che la persona può lei stessa contattare il numero verde o le forze dell’ordine, segnalando la sua condizione di sfruttamento, altre volte emerge per vie diverse. L’equipe che segue l’inclusione sociale anzitutto fornisce un supporto abitativo, poi supporta le persone a individuare le modalità per la ricerca lavoro, quindi c’è una parte formativa legata a come funziona il mondo del lavoro e quali sono i diritti dei lavoratori. Qui ci possono essere risposte di diverso tipo perché i percorsi delle persone sono differenti: in base alle esperienze che ciascuna ha avuto la risposta è differente. Ci sono persone che non hanno sperimentato delle situazioni lavorativi idonee, che rispettassero i diritti dei lavoratori, quindi all’interno dei corsi offerti nel progetto possono per la prima volta sperimentare cosa vuol dire inserirsi nel mondo del lavoro.

Un progetto impegnativo e complesso, che però dà i suoi frutti. Quando ci si chiede di una storia a lieto fine in vicende del genere risulta difficile dare una riposta specifica, ma sullo sfondo si intravedono tante piccole vittorie:

Non mi viene in mente un’unica storia, ma mi viene in mente un periodo storico: quello del lockdown del 2020. In quel periodo lavorare per l’inserimento lavorativo è stato molto complesso, una grande sfida. La storia a lieto fine che mi sento di portare è che, nonostante le difficoltà, le persone che erano accolte in quel periodo sono riuscite tutte a inserirsi in un contesto lavorativo e a raggiungere una condizione di autonomia.

Giusy Simone

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