Mimosa e l’impegno contro lo sfruttamento sessuale di strada

di Francesca Campanini

Gaia Borgato, presidente dell’Associazione Mimosa, ci parla della prostituzione migrante di strada e del lavoro di Associazione Mimosa e Cooperativa sociale Equality Onlus per contrastare la marginalizzazione

Lo sfruttamento sessuale attraverso la prostituzione migrante di strada è una delle realtà sommerse della nostra società, ma c’è chi si occupa di farla emergere, come la Cooperativa Sociale Equality Onlus e l’Associazione Mimosa, che offrono servizi di assistenza in questi contesti.

Mimosa e l'impegno contro lo sfruttamento sessuale di strada

Ce ne parla Gaia Borgato, presidente dell’Associazione Mimosa: “Equality Onlus gestisce il servizio di Unità di strada, Associazione Mimosa affianca l’attività di Equality mettendo a disposizione i propri volontari. Le attività si svolgono nel quadro più ampio che è il progetto NAVe – Network Antitratta per il Veneto, creato dal Dipartimento per le Pari Opportunità.

 L’Unità di strada contatta tutte le persone che si prostituiscono su strada, noi copriamo i territori di Padova, Vicenza, Treviso e Venezia, contattiamo tutte le persone offrendo assistenza socio-sanitaria per evitare che contraggano malattie sessualmente trasmissibili, cerchiamo di educare alla tutela della propria salute. Incontriamo le persone su strada e consegniamo i volantini con i numeri di telefono che le persone poi possono chiamare di giorno per chiedere accompagnamenti sanitari o assistenza, anche socio-legale. Quando scendiamo in strada offriamo anche generi di ristoro, thè caldo, biscotti, consegniamo i preservativi e facciamo due chiacchiere. Il tutto finalizzato alla costruzione di una relazione di fiducia. Un po’ per avere un osservatorio sul fenomeno, quindi cercare di dare risposte concrete e appropriate alle esigenze delle persone che contattiamo e un po’ anche per capire se ci sono ulteriori esigenze, quali quelle magari di emergere da una situazione di sfruttamento o di violenza, perché ovviamente ci sono persone su strada che non esercitano la prostituzione volontariamente”.

Però le condizioni di difficoltà non sono solamente sulla strada, infatti voi durante il lockdown del 2020, avete consegnato beni di prima necessità alle lavoratrici sessuali direttamente a casa. Cosa avete incontrato nel momento in cui siete andati nelle case di queste persone?

Le difficoltà si sono amplificate con la pandemia, alcune persone hanno dovuto smettere di lavorare su strada arrivando a situazioni di indigenza in cui magari non avevano neanche i soldi per comprarsi da mangiare. Tra l’altro parlando quasi esclusivamente di prostituzione migrante, le persone che contattiamo spesso non hanno il permesso di soggiorno e qualche cavillo burocratico impedisce loro di accedere ai servizi e ai diritti di base. Durante il lockdown ci sono stati fondi per aiutare la popolazione, ma loro sono state escluse. Non se la passano bene, hanno difficoltà a trovare appartamenti in affitto per via della mancanza di documenti, quindi si adeguano a quello che possono trovare e accettano di pagare moltissimo, perché ovviamente l’affitto è in nero. Devono anche inviare soldi nel paese d’origine dove sono rimaste le loro famiglie. Per non parlare poi delle persone che sono sfruttate, vittime di tratta, che hanno anche dei debiti da ripagare a chi le controlla”.

In linea di massima quante di queste lavoratrici sessuali migranti sono vittime di tratta e sfruttamento?

“Diciamo che non possiamo avere una statistica esatta, perché ovviamente non tutte le persone che sono sfruttate dichiarano di esserlo. Quello che possiamo notare è che più la persona che si incontra è giovane– diciamo tra i diciotto e i ventidue, ventitré anni – e minore è il tempo da cui è in Italia, più è probabile che sia una vittima di tratta e che subisca sfruttamento. Ultimamente le dinamiche riguardo alla tratta sono un po’ cambiate: con il Covid-19 di nuovi arrivi su strada non ne abbiamo più visti. Quello che ci siamo detti però è che era impossibile che il fenomeno della tratta di esseri umani a fini di sfruttamento si fosse fermato. Probabilmente nuove ragazze sono arrivate ma sono state messe direttamente negli appartamenti, dove noi difficilmente riusciamo a raggiungerle”.

Tra l’altro l’Associazione Mimosa è nata nel 1996, un periodo di ingenti flussi migratori e di tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Le condizioni in cui si verificavano questi fenomeni però erano diverse, come sono cambiate?

“Le organizzazioni criminali sono diventate sempre più “brave” a sfruttare le persone, quindi se all’inizio usavano la violenza fisica, ora hanno capito che se invece utilizzano altri metodi, come la violenza psicologica, è molto più facile tenere una persona soggiogata. Nelle provenienze dall’est Europa si nota molto questo fenomeno, chi sfrutta queste ragazze le fa anche spesso innamorare: lo sfruttatore cerca la ragazzina, per esempio in Romania, più fragile, con un contesto familiare disgregato, che non è andata a scuola, che vive la povertà e che non vede alternative per il futuro… Le dice che andranno in Europa dell’ovest, che lì si sposeranno e vivranno felici e contenti. La ragazzina il più delle volte accetta, magari le viene anche detto che inizialmente dovrà prostituirsi per un po’ di tempo, ovviamente non vengono riferite le condizioni in cui dovrà farlo. Si va avanti così fino a che diventa meno “produttiva” per lo sfruttatore, che va a trovarsene un’altra più giovane nel paese d’origine. E quando smettono di essere sfruttate, nel senso che a un certo punto non c’è più nessuno che gestisce il loro giro, rimangono in strada perché non hanno alternativa”.

C’è un episodio che hai vissuto come volontaria e che secondo te rende l’idea di cosa può “dare” fornire di assistenza in questo contesto e fare questo tipo di attività di volontariato?

“Di episodi ce ne sono tanti… Diciamo che capiamo l’utilità del nostro servizio quando, per esempio, incontriamo delle ragazzine giovani che appena arrivate sono molto impaurite e non chiedono nessun aiuto, poi piano piano si aprono, chiedono magari una mano per l’accompagnamento sanitario e lì allora si apre un mondo di richieste. Si arriva da lì a capire che sotto ci sono situazioni di sfruttamento, allora le si riesce anche a condurre in percorsi di emersione, percorsi anche di accoglienza e di accesso ai servizi del territorio. Ci vedono come dei punti di riferimento, ed è un po’ quello che cerchiamo di essere noi: dei punti di riferimento per persone che altrimenti non ne avrebbero.

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