Di nuovo al cinema con Nomadland

di Redazione
Di nuovo al cinema con Nomadland

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Una bella fila nutrita, eterogenea e molto educata, ma poco ordinata (siamo pur sempre italiani), erano tutti gentili e attenti a non accalcarsi, a non superarsi, a infilarsi nel flusso giusto di quelli che dovevano acquistare il biglietto e di chi l’aveva già prenotato online. 

La sala era piena compatibilmente con la normativa post-covid, il pubblico sistemato un po’ a macchia di leopardo. Poltrone vuote dividevano gruppi di spettatori che in numero variabile si erano dichiarati conviventi: una coppia di pensionati, qualche amica ancora in abito da lavoro… Tantissimi giovani in gruppi di due, cinque o sei, variopinti e con quell’aria tipica degli studenti universitari. 

Una volta dentro, accolti da comode poltrone si rimane comunque un po’ spaesati dall’impatto con un luogo per tanti mesi precluso al pubblico. Il ragazzo che gestiva gli ingressi accompagnava, quasi accudiva, noi spettatori un po’ impacciati e insieme eccitati, consapevole dello straniamento dovuto a regole nuove con cui familiarizzare

Bellissima la sensazione del brusio che di colpo si azzittisce, come accade alle cicale d’estate, e il buio che impone al cristallino di ritirarsi a una nuova condizione e abituarsi velocemente; parte la musica e i titoli di apertura.

Mi avevano detto che Nomadland si doveva guardare sul grande schermo perché le immagini erano vaste come le pianure in America, ed è vero! Lo sguardo si allarga a dismisura partendo dagli intensi close-up sui volti dei protagonisti e della magistrale Frances McDormand. Seguendo la camera da presa che abbraccia le immense pianure desertiche americane, ci si ritrova senza traumi a sentire che anche il cuore si è allargato per accogliere tanta gigantesca poesia abitata da una moltitudine di piccoli umani.

Sono persone senza fissa dimora i personaggi di Nomadland, ma l’impressione è che abbiano trovato una voce, certo fuori dal coro perché ormai privata del consenso di una società spietata. Non so come i doppiatori abbiano risolto in italiano, ma in inglese alla domanda posta dall’intervistatrice di un centro di collocamento: Are you homeless?” la protagonista risponde dignitosa e convinta: “No, I’m houseless.

Come lei, ognuno a suo modo ha trovato una nuova lingua provvista di una grammatica diversa, perché espulsi dalle “accademie” hanno trovato la chiave per essere donne e uomini capaci di umanità e di solidarietà discreta in un rinnovato coraggio di vivere

Un viaggio, certo non dinamico, spassoso o incalzante, che ci ha portati con la giusta lentezza, mai piatta, dentro al più intimo indagare l’animo umano capace di trasformare le difficoltà in scelte, la semplicità in grazia, la povertà in frugalità. Come in una fiaba la sceneggiatrice ci fa vedere il dolore, ma lascia fuori il male. Ringrazio questo film per avermi riproposto il bello della vita laddove non sembra esserci che tristezza ed emarginazione.

Sentire colori di un paesaggio lontano da noi, nel quale si muovono sopravvissuti spezzati dalla spietatezza della società con i cuori rattoppati, ma capaci ancora di battere, anche se ad altri ritmi. Ascoltare poi le note di Einaudi che toccano i tasti dei cuori in platea con la sua melodia ormai familiare e riconoscibile, ha fatto la sua parte per farci sentire di nuovo tutti insieme dentro un cinema: normale? No, speciale! 

Pamela Ferlin

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