Una cura per l’Alzheimer

di Alessia Da Canal

Arrivare ad una diagnosi precoce, perché la cura sperimentale sta diventando realtà. Facciamo il punto con la Prof.ssa Annachiara Cagnin

La buona notizia è nell’aria, anche se non sarà domani e non tutti potranno accedervi: si parla di una vera cura per l’Alzheimer, in fase di approvazione, perché non sia più solo sperimentale, ma possa essere adottata dal Servizio Sanitario Nazionale. Ne abbiamo parlato con la Prof.ssa Annachiara Cagnin, responsabile del Centro per il declino cognitivo e la demenza della Clinica Neurologica dell’Azienda Ospedale – Università di Padova.

Ѐ stata lei a diagnosticare l’Alzheimer precoce a Paolo Piccoli, che a soli 48 anni è già ospite in una residenza per anziani.

E sempre un momento molto critico quello della diagnosi – spiega la neurologa – perché non se l’aspettano e viene percepita come una sentenza più che una diagnosi. Quando ho incontrato Paolo e sua moglie avevo un sospetto, ma non si può avere la minima esitazione, perché si può condizionare una vita. In questi casi, anche se c’è un sospetto molto forte, si rivolta il paziente ‘come un calzino’ ”.

Il caso di Paolo è limite o ce ne sono parecchi?

Sono pochi, ma sempre troppi rispetto a quanto vorremmo. Il loro numero non è aumentato, ma oggi possiamo mettere questa etichetta grazie alle capacità di diagnosi. Un tempo questi pazienti venivano tenuti a casa o messi in manicomio.

In neurologia, negli ultimi anni, ci sono state delle rivoluzioni diagnostiche. Ci sono PET che possono vedere il deposito della ‘colla’ – così chiamo l’amiloide nella malattia di Alzheimer – o si può fare il prelievo del liquor che bagna le cellule. Gli sforzi della ricerca hanno fatto sì che la diagnosi che una volta era ‘post mortem’, oggi possa essere fatta precocemente”.

Si parla di diagnosi precoce in favore di una cura che tutti attendiamo, ma…

Siamo in procinto di avere qualcosa di importante. Fino a 15 anni fa ci veniva detto: perché diagnosticare in modo preciso quando non si ha nulla da dare? Ora è nell’aria una terapia sperimentale che potrebbe essere introdotta dal SSN. Una terapia che modifica le molecole, gli assetti, non solo sintomatica, ma che potrebbe cambiare le traiettorie della malattia.

Per questo la ricerca ha investito sul definire chi ha o chi non ha questa malattia. Le terapie non sono banali, ma sono impegnative per chi le fa, chi le segue, anche per il costo e vanno date alle persone sulla base della diagnosi”.

Diagnosi di Alzheimer, da non confondere con altri tipi di demenza, che spesso si assomigliano nei sintomi.

Soprattutto nelle persone giovani. Mentre tutti associamo la malattia di Alzheimer con il disturbo della memoria, la perdita della sequenza temporale, in realtà ci sono forme atipiche che colpiscono soprattutto le persone giovani. Si associano a depressione, disturbi del comportamento, apatia.

E tutto questo confonde. Pensate che nei giovani si sfiora il 50% di diagnosi sbagliate. Se non si fa tutto l’iter diagnostico e ci si limita ad investigare i sintomi, si può essere tratti in inganno”.

Che peso ha la famigliarità?

Tutti abbiamo sperimentato il dimenticare, l’avere confusione… ma non per questo dobbiamo preoccuparci e attivare una serie di azioni che ci portino dal medico. Quando invece questi sintomi sono persistenti, presenti al di là del momento di stanchezza, quando c’è una modificazione di un comportamento in termini di apatia, quando c’è  una familiarità, insomma, quando il familiare nota che qualcosa non torna, è bene fare accertamenti in un centro specialistico.

Al di là della terapia. Pensate a Paolo e Michela. Ѐ stato importante avere la diagnosi, doloroso ma importante. E questo nonostante non abbiano potuto usufruire delle terapie sperimentali perché prevedono un cut off di 50 anni, cosa che ha aggiunto ulteriore dolore al dolore. Ma avere la diagnosi era in parte un sollievo rispetto al non sapere cosa stava succedendo”.

A noi questo caso sta a cuore e ovviamente speriamo che Paolo possa accedere alle cure, ma non si sa che piega possa prendere la malattia?

Non si possono fare previsioni soprattutto quando la persona è molto giovane, perché ha una resilienza al di là del problema specifico. Tutto il resto del corpo è giovane e forte e cerca ogni giorno di ostacolare questo processo. Il declino è variabile da soggetto a soggetto e da periodo a periodo. E il momento Covid che abbiamo vissuto non ha aiutato.

Non parlo solo di cellule, di reti di neuroni che provano ad arginare la malattia, ma della rete di stimolazione ambientale in cui viviamo che è stata fortemente danneggiata dal Covid. Ad esempio Paolo prima del Covid stava benissimo, aveva una serie di attività costruite su di lui. Era importante provare a ricordare una canzone o fare un lavoro di squadra.

Gli davano gratificazione e capacità di resilienza che non ha più potuto avere”.

Quanto è importante avere un approccio diverso alla malattia?

La stimolazione ambientale è fondamentale tanto quanto le medicine. Per l’anziano basta andare a prendere il pane, salutare l’amico o andare a prendere il nipotino all’asilo, già questo è importante. Stanno nascendo le comunità per l’Alzheimer, delle friendly community in cui è possibile immaginare che una persona può uscire e trovare qualcuno che la riporta a casa se non si ritrova e non subisce lo stigma della gente. Quello che ha fatto nel libro ‘Un tempo piccolo’ Michela è stato importante, proprio per cominciare a togliere lo stigma. Non è una vergogna”.

La Malattia di Alzheimer e le demenze (che hanno conseguenze simili per le famiglie) sembrano in aumento…

L’incidenza è stata in aumento negli ultimi decenni perché ha come fattore di rischio principale l’età. La popolazione è invecchiata e tutte le malattie neurodegenerative, come anche il Parkinson, che comporta un declino cognitivo, sono aumentate.

Recentemente si registra un calo di questo aumento perché le persone che hanno 70 anni ora, hanno cominciato ad avere uno stile di vita dopo i 50 anni più corretto rispetto ai fattori di rischio vascolari che proteggono dal decadimento cognitivo.

Stiamo osservando gli effetti benefici dell’introduzione del farmaco per l’ipertensione, anni fa o del controllo del colesterolo. Va detto che questi fattori servono a ridurre il rischio se presi in carico dalla cosiddetta middle life, dai 50 anni in poi. A 82 anni quando comincio a perdere la memoria non ha senso che io corregga la mia pressione per la mia memoria.

Ma c’è chi dice che in realtà tutto si costruisce da giovani, da come si affronta la scuola, da come si partecipa all’aspetto educativo (interessante in tempo di Covid). Anche come si dorme è importante. Ci sono studi che evidenziano come non avere un pattern del sonno regolare nel tempo aiuti il deposito della ‘colla’ dell’Alzheimer.

Noi cominciamo a proteggere il nostro cervello da quando siamo giovani, da come costruiamo  l’impalcatura che ci permetta di reggere l’urto quando saremo anziani: scolarità, l’attività, l’essere curiosi, dormire bene, non assumere droghe e poi quando arriva all’età media stare molto attenti alla salute cardio-cerebro-vascolare, pressione, colesterolo, obesità, fumo…”.

L’accesso a questa cura che ci dà grandi speranze, immaginiamo non sarà per tutti, né immediato.

“Stiamo parlando di un farmaco che è un anticorpo monoclonale, approvato dall’ente regolatorio degli stati uniti. In questo momento è in approvazione nella sede europea. Poi arriverà all’AIFA. Noi siamo contenti perché per la prima volta parliamo di una terapia. Ma è una cosa che non succederà domani.

Ha dei tempi: un anno, un anno e mezzo e poi ci saranno dei criteri non per limitare l’accesso alle cure ma per individuare chi effettivamente può beneficiare di una simile terapia. Ci saranno screening molto serrati. E il punto di partenza è essere sicuri che ci sia una malattia di Alzheimer”.

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