Mettersi All’Opera per il reinserimento

di Francesca Campanini

Se la criminalità nasce dalla povertà, il lavoro è la chiave, dentro e fuori dal carcere. Per questo l’impresa sociale All’Opera di Massimiliano Miele e Michele Montagnoli si mette in gioco

Le prigioni in Italia spesso non funzionano, ma quando funzionano di potenziale rieducativo ne dimostrano. A darne la prova è una realtà nata tra le mura del carcere Due Palazzi di Padova e proseguita al di fuori: l’impresa sociale All’Opera.

Fondata nel 2019 da Michele Montagnoli e Massimiliano Miele, due uomini che hanno passato anni in reclusione e che hanno deciso ora di mettere la loro esperienza di reinserimento a disposizione di detenuti, ex-detenuti, persone appartenenti a categorie protette e provenienti da situazioni di disagio che vogliono, e in queste condizioni possono, intraprendere la stessa strada.

Michele Montagnoli e Massimiliano Miele
Michele Montagnoli e Massimiliano Miele

Oltre alla buona volontà individuale, come sottolineano Miele e Montagnoli, è fondamentale che ci sia un tessuto socio-economico pronto a riaccogliere nella società coloro che, per scontare la loro pena, ne sono stati allontanati.

La volontà individuale è imprescindibile, ma non sufficiente nelle realtà carcerarie che non offrono opportunità lavorative e assistenza psicologica.

Dipende uno da dove viene, perché non tutte le carceri sono come Padova. Parte tutto da lì, la riabilitazione parte dal carcere, poi si deve continuare fuori.

Ognuno di noi ha le sue idee e i suoi progetti per il futuro, ma serve una mano dalle istituzioni.

Nelle carceri come Padova, dove ci sono delle cooperative sociali all’interno che danno lavoro a tante persone, c’è la possibilità per chi vuole di riscattarsi. Poi le persone devono essere seguite anche quando escono.

Faccio un esempio e parlo di me: se io non avessi avuto una famiglia alle spalle che mi supportava, la mia compagna che si è trasferita qui per starmi vicina, un lavoro nella cooperativa, come avrei fatto? Se non hai una casa, non hai niente, come fai a vivere fuori? Se non ci sono queste realtà che ci credono, che creano progetti, non puoi farcela da solo. Lo stato c’è, ma fino a un certo punto, ed è poco. Molto poco” – spiega Miele, originario di Caserta, che ha scontato i suoi primi anni di condanna tra le carceri campane e quelle siciliane, in cui le opportunità non erano le stesse che a Padova.

Prosegue Montagnoli, sottolineando che i carcerati sono persone che hanno famiglia, che vogliono in qualche modo sostentare economicamente i propri figli e i propri coniugi:

Ѐ fondamentale retribuire la persona che esce dal carcere, ma anche all’interno del carcere, con uno stipendio vero e con un contratto vero. Perché altrimenti questa persona non si sente un vero lavoratore, non si sente un vero compagno, un vero marito, un vero padre, un vero figlio… Perché se non può permettersi di avere quella dignità di mandare cento euro a casa per essere di sostegno alla sua famiglia non ha senso l’opera che stiamo facendo. Inoltre, il padre che all’interno del carcere lavora è un esempio per il figlio, che così capisce che si può vivere anche senza dover commettere reati per potersi mantenere.

Se il padre una volta uscito trova lavoro, continua a lavorare e a cambiare vita, questo è fondamentale per la famiglia, per i figli, ma è un esempio anche per chi uscirà dopo di lui”.

A dare testimonianza diretta di tutto ciò è Giovanni, un detenuto con permesso lavorativo impiegato a Vigonza nelle attività di assemblaggio che All’Opera svolge per un’azienda terza: “Io ho iniziato a lavorare nel 2016, e ho quarantadue anni! Non ho mai lavorato prima… Il carcere non viene per creare del male, nella mia esperienza personale il carcere mi ha salvato.

Perché ho iniziato a lavorare, ho iniziato a dialogare con la gente e a provare tante di quelle emozioni che prima faticavo a provare, avendo una vita molto travagliata. Questa possibilità mi sta facendo maturare”. Quando gli chiediamo se Padova possa essere definita un’eccezione rispetto alla maggior parte delle realtà penitenziare, Giovanni, originario di Bari, risponde che “Le realtà degli istituti sono molto difficili, perché spesso non c’è lavoro.

Dipendenti di "All'Opera"
Dipendenti All'Opera

Ti lascio immaginare i detenuti che stanno chiusi ventiquattro ore in cella come soffrono e come sono arrabbiati con le istituzioni… Perché se invece ha una possibilità lavorativa, una persona che riesce a mantenere la famiglia da dentro il carcere quando si trova in libertà prima di sbagliare, se ha un lavoro, ci pensa due o tre volte.

Perché quello che porta una persona a commettere un reato sono le difficoltà economiche. Pure un semplicissimo reato come il furto di cibo da un supermercato è pur sempre un reato per le istituzioni.

Però se io ho due figli e una famiglia che non può mangiare, questo mi porta a commettere un reato per dare cibo ai miei figli. Queste cose chi sta al di là non è che non le capisce, ma non sa come affrontarle, perché sono troppe le persone che stanno in questa realtà di povertà!”. 

Accanto al lavoro è poi fondamentale per i detenuti e gli ex-detenuti ricevere assistenza psicologica, necessità che la cooperativa All’Opera ha compreso, per questo fornisce la possibilità di parlare con un’esperta. Giovanni ci spiega gli effetti che ciò ha provocato sui suoi comportamenti quotidiani: “In carcere c’è chi valuta la possibilità che qualcuno abbia bisogno di aiuto psicologico, anche gli educatori e gli assistenti cercano di darti un conforto, per quello che possono fare… La libertà non te la può regalare nessuno! L’assistenza psicologica è importante perché così ti riesci a confrontare se hai un problema con qualcuno. Ѐ un bel sollievo. Io prima davo tutto per scontato, era tutto dovuto…”. 

Ma non sono solo i detenuti a farsi portavoce della necessità di reinserimento e delle risorse che i lavoratori, dal carcere o usciti da poco, costituiscono.

Giulio Sartori, dirigente di GN Hearing che è stata la prima azienda cliente di All’Opera, parla di come nonostante le esitazioni iniziali la collaborazione con questa cooperativa sia stata proficua sia dal punto di vista “tecnico” che umano. 

Giulio Sartori e Michele Montagnoli
Giulio Sartori e Michele Montagnoli

Il loro percorso, il fatto che vengano da categorie disagiate o di ex detenuti, li porta ad essere persone che apprezzano il fatto di avere un lavoro onesto, con delle regole, preciso, in cui possono comunque fare la differenza anche nel loro piccolo. – e continua – Durante il nostro primo colloquio insieme a uno dei rappresentanti della cooperativa loro sembravano molto a loro agio e inizialmente noi magari no, ecco.

Abbiamo sempre cercato di mantenere il massimo della trasparenza, abbiamo sempre detto a tutti ‘se volete sapere qualcosa chiedete e vi risponderanno’.

Abbiamo cercato di creare un rapporto totalmente diretto con loro, da parte di tutti i dipendenti, e molti di loro dopo qualche tempo mi hanno detto ‘Se non me l’avessi detto, non avrei mai immaginato che fossero persone ex-detenute!’. Quindi è importante vedere come delle volte ci si creino delle aspettative e delle false idee solo sulla base dei preconcetti e di ciò che troviamo scritto, mentre invece la realtà, magari vista con l’idea di una seconda opportunità, pare totalmente diversa”. 

Come sottolinea Tommaso Bedin, il rappresentante legale di All’Opera che non ha mai vissuto un’esperienza di detenzione, ma che ha trovato in questo progetto la possibilità di dare un nuovo senso al suo lavoro e alla sua vita: “Non siamo noi gli artefici del loro reinserimento, ma sicuramente una parte di questo cammino passa attraverso di noi. A livello personale poi la possibilità di lavorare e mantenermi, ma comunque cercare anche di aiutare gli altri è qualcosa che mi gratifica molto, che mi dà quella soddisfazione che in passato altri lavori non mi davano”. 

In fin dei conti questo è l’appello di Montagnoli e Miele: “Agli imprenditori e alle persone sensibili, anche se ora non credete al nostro progetto, metteteci alla prova!”.

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