Innamoriamoci di noi. Intervista a Silvia Gribaudi

di Redazione
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Danza e comicità come veicolo di interazione con gli altri. E trasformazione del disagio

Silvia Gribaudi è una coreografa torinese attiva nelle arti performative che ha focalizzato la propria ricerca artistica sull’impatto sociale del corpo, mettendo al centro del linguaggio coreografico la comicità e la relazione tra spettatore e performer. 

Ha ricevuto diversi premi a riguardo, partecipato e ideato progetti artistici di ricerca anche sull’invecchiamento attivo attraverso l’arte della danza.  L’ultimissimo spettacolo MONJOUR (2021) è prodotto da Torinodanza Festival in collaborazione con il Teatro Stabile del Veneto e Les Halles de Schaerbeek – Bruxelles.

Silvia, che rapporto ha con il suo corpo?

Ho 48 anni e in questo momento il mio corpo è in fase di trasformazione.

Tuttavia ogni forma fisica, a ogni età, contiene la sua originalità primigenia, dal momento che sostanzialmente il corpo è un involucro alimentato dall’intenzione più profonda, dallo sguardo, dalla vivacità che trasmettiamo.

Rispetto al mio corpo, per me è una continua riscoperta nel tempo e lo abito ogni giorno in maniera differente.

Lo ascolto e soprattutto faccio attenzione a come si distribuisce il peso durante i movimenti nello spazio. Questa è la bellezza della danza che è come il contatto con gli altri: stabilisce relazioni.

Nella sua arte c’è molta ironia, comicità. Sono un valido veicolo di interazione con gli altri?

La bellezza del clown sta nel fatto che egli vive nel piacere del disagio, ossia trova risorse in una situazione scomoda. Personalmente, quando costruisco spettacoli, il mio sguardo è attratto dal divertimento e il divertire diventa strumento per raccontare una profondità, uno spessore.  

Si può ridere anche in situazioni di imbarazzo, ma dietro a quella risata c’è una trasformazione del disagio, per stare a proprio agio.

In questa maniera, attraverso la comicità, il fallimento può essere trasformato davanti al pubblico. 

Cosa ne pensa del body shaming?

È un tema attuale ed è bene che se ne parli. Compito dell’arte è portare bellezza in tutte le forme possibili, perché non ci sono limiti quando si parla di arte: tutto diventa interessante, forte, espressivo. Penso ai quadri di Botero: non inorridiamo ammirandoli, al contrario, scorgiamo armonia nei volumi differenti.

Ritiene che il suo lavoro aiuti a sensibilizzare sul tema del giudizio sull’aspetto fisico? 

Sono molto felice di fare questo mestiere perché va risvegliare una posizione di rispetto nei confronti della bellezza, che si esprime in tutti i modi immaginabili. 

Penso che dentro e dietro un lavoro artistico ci sia sempre un lavoro politico perché c’è una rivoluzione dello sguardo quando ci esponiamo in scena. 

Nel mio ultimo spettacolo Monjour ci sono cinque corpi maschili sul palco, molto diversi l’uno dall’altro.

Per tanti anni mi sono dedicata al corpo delle donne ma ora è importante avere uno sguardo di genere completo, per portare le persone a vedere, nell’arte e attraverso l’arte, tutte le possibilità. Senza giudizio.

Secondo lei da cosa è data l’armonia di un corpo?

Dal disarmarsi, dal lasciare che emerga e si esprima l’unica cosa che esiste e cioè la vera essenza di ognuno di noi. Noi siamo ciò che siamo, e va bene così. 

C’è una armonia d’insieme che non è data esclusivamente dal fisico, perché l’essere umano è estremamente complesso e il corpo non può riassumere questa complessità.

Per questo dobbiamo aprire lo sguardo e cogliere tutte le sfumature di una persona.

Invece spesso incaselliamo tutto dentro a piccoli box di stereotipi, scatole con etichette che alla fine risultano claustrofobiche

È difficile accettare i propri difetti…

È difficile trasmettere il concetto che possiamo essere tante cose diverse e nel tempo cambiare. Però succede, accade, come capita che nell’arco di una vita ci si innamori. Ecco: dobbiamo innamorarci di noi stessi.

 

 

Articolo di Germana Cabrelle

MONJOUR - principale - @Antonio Ficai | Silvia Gribaudi

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