Avvocato o Avvocatessa?

di Redazione
Monica Ceravolo avvocato | Avvocato o avvocatessa?

E' veramente una questione di genere?

Monica Ceravolo di Padova da trent’anni esercita la professione di avvocato e inaugura il 2022 con due sentenze favorevoli che per portata storica e valore simbolico possono definirsi eccezionali. La prima la vede vittoriosa in una revocatoria di fondi messi al riparo in una complessa costituzione di trusts all’estero per centinaia di milioni, su incarico della curatela fallimentare di uno dei più ingenti crack italiani, quello della società di navigazione Deiulemar; e la seconda presso il TAR del Lazio per il riconoscimento delle specializzazione nelle professioni dell’avvocatura che apre la strada delle Scuole di Alta Specializzazione per gli avvocati.

Compostamente elegante e sobriamente femminile, un tailleur nei colori caldi del bosco e una camicia in seta aggraziata come il suo sorriso e luminosa come i suoi occhi azzurri. Mi accoglie nello studio che lascia entrare da una grande vetrata tutta la luce di un pomeriggio cristallino di fine inverno, è distesa e serena mentre io ho un leggero imbarazzo: non so come rivolgermi a lei.

Avvocato? O preferisce che la chiami avvocata?

Come preferisce, avvocatessa o avvocato, non fa differenza. Svolgo questa professione da più di trent’anni, e la questione devo ammettere che non mi appassiona affatto. Quello che mi interessa è sentire il rispetto e la considerazione che si devono al nostro ruolo. Negli anni ne ho sentite di ogni colore, anche se devo riconoscere che le cose sono cambiate negli ultimi tempi. Ho trovato irritante in passato sentirmi chiamare in udienza “signora” o “dottoressa”, non perché io non sia anche questo, ma perché in certe sedi sono un avvocato, punto. Quando ero più giovane mi è capitato che tanto i giudici quanto i colleghi di controparte prendessero le mie parti e correggessero chi mi si rivolgeva così. Semplicemente perché non era un appellativo adeguato al luogo e al mio ruolo. Oggi sono felice di restituire alle colleghe più giovani, quando se ne presenti l’occasione, la stessa cortesia, anche se fortunatamente è sempre più raro che questo avvenga. La verità è che dietro quel “signora” si cela un -neanche tanto velato- senso di ironia. Come una malcelata sottolineatura di una supposta inferiorità di una donna che occupi una posizione storicamente appartenente agli uomini”.

La scelta dell’avvocatura per una donna avvocato non è più così rara, oggi il numero delle donne ha superato quello degli uomini ma le chiedo: è davvero superato il pregiudizio di genere?

Non ho una risposta univoca, sicuramente c’è stata un’evoluzione molto positiva negli anni, la presenza numerica è un segno e il livello cui sono arrivate oggi le donne nella professione è certamente apicale. Anche la presenza femminile nei settori tradizionalmente maschili, il diritto commerciale e societario, è ormai consistente: non è più come un tempo, quando ci si aspettava che le donne si occupassero prevalentemente di diritto di famiglia, o che negli studi legali ricoprissero posizioni subordinate, magari presenziando in udienza per conto dei colleghi maschi che avevano l’incarico. 

Abbiamo dimostrato sul campo di essere capaci quanto un uomo, e anche di più”.

Di più nel senso che una donna è un avvocato migliore?

No, non necessariamente, può essere migliore o peggiore, come sempre dipende dalla preparazione e dalla passione che si mette nel lavoro. Forse azzarderei una differenza nell’approccio, ovviamente per quelle di noi che finalmente non si sentono più obbligate a scimmiottare uno stereotipo maschile per sentirsi legittimate. A me sembra che un approccio femminile tenda a non godere della sconfitta dell’avversario, non ne facciamo una questione di primato o di combattimento, piuttosto tendiamo a comporre liti in maniera costruttiva per i nostri assistiti, spogliando la questione dai machismi obsoleti a tante volte un po’ grottescamente tronfi. Il che non significa che manchiamo d’orgoglio o di capacità combattive, ma mi sembra non siano fine a se’stessi, semplicemente parte di un processo di chiarimento per addivenire a soluzioni soddisfacenti”.

Ma cosa le piace del suo lavoro?

Lo faccio da tanti anni che è certamente diventato una parte della mia identità – come sempre accade quando una professione occupa tanta parte della tua vita – ma sono felice che mi piaccia ancora tanto, perché la soddisfazione di vedere ‘fatta giustizia’ è una sensazione che non riesco a vedere disgiunta dal mero perseguimento della vittoria… non so se sono riuscita a spiegarmi”.

Oggi consiglierebbe una giovane donna di intraprendere questa carriera sapendo che è nelle condizioni di eccellere?

“Si direi di si, sempre che sia mossa da passione e da vero convincimento, le cose sono difficili, ma come in tanti altri campi, la competizione è molta e la strada si costruisce lungo il percorso. Il tempo della conciliazione certo è complicato, ma non più che per altre professioni: io ho una famiglia, e come tante altre donne ho dovuto fare dei compromessi ma non delle rinunce. Non credo che se fossi stata un uomo sarebbe stato tanto più facile, anche se riconosco che, soprattutto nella prima fase della prima infanzia di mia figlia, ho potuto contare sull’aiuto della mia famiglia di origine. Da una società evoluta mi aspetto che il sistema del welfare provveda le condizioni affinché una famiglia con dei figli possa contare su strutture e organizzazione del lavoro idonea alla “coesistenza delle carriere”: quella di professionista e quella di genitore”.

Intervista di Pamela Ferlin

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