Un lavoro “in minoranza”: l’ostetrico

di Micaela Faggiani

Mariano Vaccari, studente Diskos, ha intervistato per noi Riccardo Federle, di professione ostetrico

 Mi chiamo Mariano, ho 24 anni e dall’età di 10 sono appassionato di tutto ciò che riguarda la comunicazione grafica.       

Per me comunicare significa togliere parole. Che si tratti di un’intesa silenziosa o di comprendere un concetto dalla sua pura rappresentazione figurativa è lì che secondo me la comunicazione raggiunge la sua massima efficacia.

In questo articolo di Fuori La Voce parleremo di uno di quei pochi ambiti lavorativi dove la presenza maschile costituisce una netta minoranza e lo faremo intervistando il dott. Riccardo Federle, ostetrico. 

Riccardo, lavori come ostetrico presso l’ospedale Pederzoli di Peschiera del Garda da quanti anni?

Lavoro lì da circa 5 anni, ho da poco iniziato il sesto anno di lavoro.

Come sei arrivato a svolgere questa professione? Era il tuo sogno fin da bambino o è stata una scelta maturata negli anni?

In verità io da piccolo volevo fare il veterinario. Durante il mio percorso di studi al liceo scientifico man mano ho cominciato a pensare cosa avrei voluto fare, avevo una compagna di banco che mi assillava dicendo di voler fare l’ostetrica, ora io sono ostetrico e lei è infermiera.

I tuoi amici e i tuoi familiari come hanno accolto la tua decisione?

Devo dire che in generale la reazione è un po strana perchè è un lavoro prettamente femminile, io credo però che la gente si convinca se ti vede convinto, per questo motivo non ho avuto problemi a convincere gli altri della mia scelta.

L’unico vero timore riguardava i posti all’università che erano molto limitati rispetto magari ad altri studi.

Riccardo Federle Ostetrico

Se guardiamo quanto tempo è passato dalla tua laurea a quando hai iniziato a lavorare come ostetrico è passato poco tempo, è stato così facile trovare lavoro?

Nei cinque anni tra quando mi sono laureato a quando ho iniziato a lavorare a Pescara come ostetrico ho lavorato in vari ambiti relativi al mio settore ma non dal punto di vista ospedaliero.

No, non è stato facile.

Oggi i tempi sono profondamente cambiati, nell’ultimo anno ho ricevuto diverse proposte, si sono sbloccati i concorsi, sta cambiando molto il panorama sanitario ma di fatto, almeno per quanto riguarda il periodo in cui sono entrato io nel mondo del lavoro è stato complicato e mi sono dovuto reinventare scoprendo anche aspetti che non conoscevo.

Tutto sommato, considerando che ero giovane e avevo voglia di mettere in cantiere nuove esperienze,  non è stato male, con il senno di poi.

A primo impatto qual è la reazione delle tue pazienti quando le incontri per la prima volta?

Si tratta di un ambiente e una professione che ti costringe a mostrarti nel modo più intimo che c’è.

Un dermatologo maschio o femmina è indifferente, ci si preoccupa sicuramente più della competenza, quando invece si ha a che fare con una situazione più intima il problema può presentarsi.

Io se devo essere sincero non ho mai trovato un grande scoglio rispetto a questo, se non raramente per un discorso etico religioso di qualcuno che magari preferirebbe essere seguito da una donna  rispetto che da un uomo.

Adesso in realtà anche in questi casi il mondo è molto cambiato, le nuove generazioni si fanno meno problemi in questo senso.

Ho avuto più difficoltà quando ero ancora in formazione, molti si rifiutavano di essere assistiti da qualcuno in formazione. In questi casi il problema è più capibile ma è anche vero che si è supervisionati ed è estremamente necessario fare formazione sul campo.

Che tipo di rapporto si crea con loro?

Di solito si crea un bel rapporto a prescindere dal genere, perché l’empatia non ha genere.

Ci sono ovviamente delle relazioni che funzionano meglio e altre che funzionano peggio, ma questo è inevitabile, è compito del professionista saper creare un rapporto il più piacevole possibile ed evitare possibili incomprensioni.

Io caratterialmente cerco di mostrarmi con un atteggiamento ottimista e simpatico e di solito la cosa è gradita.

Quando lavoro in ambulatorio tendo ad impostare una modalità molto cabaret.

Credo sia giusto divertirsi lavorando e credo sia giusto soprattutto per le persone che aspettano lì magari più del previsto perché come si sa i tempi possono dilatarsi.

È giusto vivere un’esperienza piacevole, simpatica, dove qualcuno ti accoglie e ti lascia andare via con un sorriso.

Riccardo Federle Ostetrico

Com’è in generale l’ambiente in un reparto ostetricia?

È un ambiente abituato ad assistere ad un evento molto felice. Non è dedicato alla sofferenza o al fine vita come lo è per la maggior parte degli altri reparti, è un ambiente esattamente contrario a ciò che di solito l’ospedale prevede.

È comunque un contesto molto femminile con le dinamiche che ne conseguono.

Senza ragionare per preconcetti ma è inevitabile che le dinamiche femminili funzionano diversamente, nel bene e nel male, rispetto a quelle al maschile.

Seppur generalizzare non va mai bene abbiamo delle caratteristiche che ci differenziano e a volte inserirsi in questo tipo di dinamica non è facile.

Magari un ragionamento alla base può differenziarsi un po’, ma in generale penso che noi abbiamo la necessità e il dovere di collaborare dal punto di vista professionale e in quanto professionisti uomo o donna non dovrebbe incidere su questo aspetto.

Nel tuo percorso di studi prima e lavorativo poi hai trovato degli ostacoli in quanto uomo o hai magari invece trovato più opportunità rispetto alle tue colleghe donne?

Ogni cosa secondo me può essere considerata sia un problema che un’opportunità, dipende dal punto di vista e da come la si accoglie.

Io ho sempre cercato di vivere la cosa come un opportunità.

Essere una mosca bianca rappresenta una possibilità in più e anche un aspetto di curiosità in più, sta tutto nel saper sfruttare bene la cosa.

L’opportunità esiste, dipende da come la si coglie.

Penso che in generale, a conti fatti, sia stata più un’opportunità e una possibilità in più piuttosto che in meno perché tutto sommato sono sorti più vantaggi che limitazioni. Chiaro però che alcune limitazioni sono esistite ed esistono tuttora.

Io avevo chiesto di collaborare con alcuni ambulatori di Medici Senza Frontiere dove però richiedevano esplicitamente soltanto personale femminile e questo non mi ha consentito di accedere a questa possibilità.

Immagino che con il passare del tempo tutto ciò sarà sempre più attenuato.

All’interno di ciò che già si riesce a fare si rimedia con le opportunità, poi se un giorno decidessi di fare qualche esperienza all’estero vediamo quali opportunità possono delinearsi.

Mi viene in mente ad esempio che magari in Francia già sarebbe un po’ più difficile dato che la traduzione letteraria di ostetrica è sage-femme ovvero donna saggia, pensarmi donna saggia è un po’ difficile, però insomma, tutto è possibile.

So che da qualche anno ti occupi molto anche di divulgazione scientifica, perchè credi sia così importante oggi parlare di scienza e più in particolare di medicina e salute?

Era una passione che già avevo prima, poi lavorando in ospedale mi sono reso conto dell’importanza della comunicazione nei confronti del paziente.

C’è un termine che oggi noi utilizziamo, che è health literacy, quando vogliamo parlare di alfabetizzazione sanitaria, ovvero banalmente il fatto di saper leggere un referto o la capacità di saper interpretare alcuni risultati della propria salute.

In sostanza se io fossi un medico di medicina generale e tu fossi il paziente, quanto tu hai bisogno di me e quanto invece riesci ad essere autonomo nel tuo percorso di salute? Anticamente si sosteneva che ognuno è il medico di sé stesso, principalmente, oltre ad essere aiutati dai professionisti, siamo noi che ci occupiamo della nostra salute. Mi sono quindi reso conto dell’importanza del comunicare, del farlo bene, del tradurre la terminologia complessa in qualcosa di semplice, mi sono appassionato di tutto questo e attraverso un master in comunicazione istituzionale della scienza e in giornalismo ho un po’ stabilizzato questo aspetto.

Da lì è nato con un gruppo di compagni di master una associazione di divulgazione scientifica che si chiama “La Lampada Delle Scienze” con la quale stiamo lavorando da ormai più di un anno.

Siamo nati durante il lockdown che è stato un po’ una sorta di Decameron per noi, essere chiusi come al tempo di Boccaccio per evitare la peste e noi per evitare il Covid, così abbiamo elaborato e strutturato questa esperienza e da allora cerchiamo di parlare di scienza ad ogni tipo di pubblico.

Che progetti hai per il tuo futuro?

Mi sveglio ogni mattina con un’idea diversa. Ho delle idee generali su dove orientarmi, mi sono anche abbastanza deciso su alcuni aspetti legati alla professione, al progredire dal punto di vista di esperienze e di nozioni per accumulare un bagaglio ancora più importante.

Negli ultimi anni ho cominciato a collaborare ad alcuni studi scientifici che è un aspetto di ricerca che mi piace molto.

Credo che nonostante sia un percorso di serie B per i sanitari, dato che il sanitario si vede pienamente realizzato quando è in corsia, bisogna ammettere che il lavoro di ricerca che sta dietro è essenziale per far progredire la medicina e permettere poi a chi si trova in corsia di lavorare in modo aggiornato secondo le ultime evidenze scientifiche.

Questo è un aspetto che voglio portare avanti e poi sicuramente l’impegno nella divulgazione scientifica dato che per me parlare di scienza è estremamente importante in quanto ritengo opportuno dare alle persone quel senso di curiosità nella vita, nelle cose. Anche quando faccio il corso pre parto io ci metto dentro degli aspetti storico culturali generali, e dico sempre «Lo so che vi rompo le scatole parlando anche di quadri e di arte che non c’entrano niente con il percorso di gravidanza» ma in realtà tutto c’entra perché la cultura e l’arte sono in armonia con la vita e poi dico sempre che se non si esce da un corso o da una esperienza con qualche nozione in più, anche solo per intrattenere una conversazione durante una cena, secondo me non è servito granchè. Abbiamo sempre bisogno di alimentarci di cose che riteniamo superflue ma che a mio avviso sono essenziali.

Così anche nella scienza c’è sempre bisogno di far riscoprire quella bellezza della scienza che fa brillare gli occhi un po’ come brillano ad un bambino quando vede degli esperimenti.

Abbiamo bisogno di rivivere tutto questo e abbiamo bisogno di renderci conto che siamo circondati di scienza che noi non consideriamo e sottovalutiamo ma che in realtà ha un grandissimo potenziale.

Basti pensare che ogni giorno in cucina noi continuiamo a fare esperimenti scientifici ma non ce ne rendiamo conto.

Magari sappiamo, perchè la nonna ci ha insegnato, di non mettere il sale prima di far bollire l’acqua, ma se conoscessimo la chimica scopriremo le proprietà colligative e quindi di fatto ci renderemmo anche conto del perché non è il caso di metterlo prima.

Vogliamo chiudere con un consiglio per tutti coloro che hanno intenzione di intraprendere una carriera lavorativa dove potrebbero rappresentare una minoranza?

Non so in realtà se ho dei consigli. Penso che ognuno si strutturi il suo percorso. Come dice una mia amica psicologa noi non abbiamo veramente il potere sulla mente degli altri fino in fondo ma magari possiamo essere fonte di ispirazione, non si può negare.

A me verrebbe da citare Annibale che diceva «O troveremo una strada o ne costruiremo una», questo per ricordare che sono proprio le minoranze che hanno fatto la differenza, sono i piccoli gruppi che hanno decretato un cambio di paradigma, una situazione consolidata dove si è sempre fatto così e poi si insinua la minoranza e la situazione cambia. Credo che il ruolo delle minoranze sia fondamentale per la collettività.

Mi sento quindi di incoraggiare le persone a fare parte di minoranze, non perché sia più facile, non perché ti semplifichi la vita, ma perché è sicuramente più soddisfacente e perché ne abbiamo bisogno.

È una strada in salita ma ne vale la pena.

 

Articolo di Mariano Vaccari

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