Che ne sarà delle ragazze afghane?

di Redazione
Che ne sarà delle ragazze afghane?

Questa la domanda che per ora è destinata a rimanere senza risposta. Intervistiamo Maria Rosario Niada. Founder con il marito Marco di Arghosha Faraway Schools per la promozione dell’educazione femminile in Afghanistan.

Maria Rosario, negli ultimi diciassette anni con la vostra associazione avete contribuito alla creazione di 15 scuole in Afghanistan che fino a ieri accoglievano 7000 studenti, di cui 5.500 ragazze dai 6 ai 18 anni. Che ne è oggi di queste scuole?

Sono tutte chiuse, con effetto immediato dopo la presa del potere dei Talebani. Queste scuole sono tutte collocate nel centro più arretrato e rurale del paese, dove vive una minoranza hazara di fede sciita, da sempre perseguitata. Quando siamo andati la prima volta, con mio marito Marco e il nostro carissimo amico Filippo Grandi, che è Alto Commissario per l’Agenzia dei Rifugiati delle Nazioni Unite, era per festeggiare il mio cinquantesimo compleanno. Abbiamo scoperto un paese in festa, nel quale i rifugiati tornavano a casa, si girava con le biciclette e c’era un fermento di rinascita che ci aveva contagiati, per questo abbiamo iniziato a collaborare a questo clima di risveglio. Il nostro cuore oggi è spezzato e siamo ibernati nell’impossibilità di fare alcunché. Abbiamo provato ad intercedere presso le autorità italiane fino a quando qualche giorno fa si è concluso il ritiro dei nostri contingenti”. 

Sappiamo che avete finanziato anche delle borse di studio per l’università che ventidue tra le vostre ragazze più meritevoli frequentano a Kabul, adesso non potranno più frequentare?

Purtroppo le nostre ragazze non possono più comunicare con noi. Sono tutte scappate dallo studentato che le ospitava perché essere tutte insieme raccolte in un unico posto rappresentava un pericolo enorme. Quindi si sono disperse, chi da parenti in città, chi tornando dalle famiglie nei loro villaggi, di un paio di loro sappiamo che sono riuscite a scappare – una con tutta la sua famiglia attraverso le frontiere con il Pakistan, un’altra è partita con destinazione Londra – ma ora per tutte le altre è troppo tardi. Non ci sono corridoi umanitari e la maggior parte di loro non ha il passaporto. Ma queste ragazze sono le più vulnerabili, perché portano sulla pelle la colpa di aver studiato, quello che fino a ieri era un motivo di prestigio e di orgoglio oggi è diventato un marchio che le espone a ritorsioni di cui temiamo gli effetti”.

Non esistono sistemi o canali ufficiali e diplomatici per metterle in salvo?

No, non per il momento. La nostra azione diplomatica presso tutte le sedi e le persone preposte è frenetica, passiamo le notti collegati al telefono ma non ci sono ancora novità, aumenta solo il loro isolamento e la paura per il futuro. La situazione è terribilmente pericolosa, tesa e in evoluzione. Non ci sono certezze e la minaccia di attentati rende il clima difficile per chi è rimasto laggiù senza tutele e senza prospettive. Il nostro stato d’animo è affranto, perché l’impotenza e la consapevolezza dell’impossibilità di avere un dialogo con le autorità locali ci fanno temere il peggio. Nel nostro caso poi le cose sono paradossalmente ancora più complicate, perché il sistema che in tutti questi anni abbiamo seguito era di raccogliere fondi qui da noi e girarli direttamente a ONG Afghane che li impiegavano per i progetti da noi condivisi. Se questo nel tempo ha agevolato la nostra presenza e la capacità operativa, concedendoci di ottenere insieme ai risultati una grande partecipazione della popolazione locale, oggi ci mette nella condizione per cui i ‘nostri’ collaboratori non lavorano per noi e le ‘nostre’ ragazze non sono direttamente nostri assistiti. Quindi formalizzare richieste di documenti per collaboratori di una realtà occidentale risulta estremamente complicato da dimostrare”. 

Cosa credete che ne sarà delle scuole che fino a ieri accoglievano le ragazze?

Ora sappiamo che sono chiuse e questo è già il peggiore dei mali. Erano fiorite in luoghi desolati e isolati, dove i bisogni sono molteplici. Attorno alla scuola si radunavano energie e comunità, non solo ragazzini che imparavano. Negli anni abbiamo fornito luoghi di vera accoglienza, con la possibilità di soddisfare anche bisogni primari come la presenza di ambulatori medici in un territorio altrimenti non servito. Abbiamo potuto formare più di 300 professori che dovevano poter aggiornare le loro competenze. Più di 2000 persone adulte si sono rivolte alle nostre scuole per poter migliorare – se non iniziare da zero – un percorso di alfabetizzazione. Sono fiorite amicizie, si sono intrecciati destini, ma molto più prosaicamente si sono aperti anche dei bazar che fornivano i beni di prima necessità in territori nei quali l’approvvigionamento era ed è molto difficile. Le scuole erano diventate punto di riferimento per una comunità di persone meravigliose, laboriose e impegnate, piene di sentimenti e di fiducia. Una fiducia che come occidentali sentiamo di avere tradito. Il nostro dolore è immenso ma siamo determinati a non abbandonarli, faremo tutto il possibile, anche per non farli dimenticare al mondo, perché quando il clamore mediatico calerà sul palcoscenico dell’Afghanistan, loro avranno ancora più bisogno di noi”. 

Intervista a cura di Pamela Ferlin

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